Il non senso

Capire ciò che non ha senso: o più precisamente (l’unica cosa che si può veramente fare), capire che una proposizione non ha senso. Per fare questo è in realtà necessario, preventivamente, disporre di un’ermeneutica sensata, dove il senso abbia già creato un terreno stabile; in altri termini dove il senso non possa essere in alcun modo messo in discussione (lo strato di terra, come direbbe Wittgenstein, dove la zappa si piega). Ma allora per dire che qualcosa è senza senso bisogna, in generale, credere nel senso: e affermare che il tutto è senza senso è qualcosa di paradossale, di logicamente impossibile. (C’è qualcosa, in questo, che contemporaneamente disorienta e consola.)

Lo schifo

Per motivi che dirò subito, posso solo dare un piccolo contributo alla geografia dello schifo: e più in particolare alla distinzione, che a me pare necessaria in fase definitoria, tra lo schifo propriamente detto e la sensazione sgradevole. Non è ovviamente solo una questione di quantità della sgradevolezza, ma c’è una profonda alterità ontologica: lo schifo non è una sensazione spiacevole piuttosto intensa, ma un rivolgimento interiore che respinge brutalmente un contatto, o l’idea di un contatto, con la cosa sporca. Quando si dice che lo schifo è la più queer tra le sensazioni io intendo questa affermazione nel senso che lo schifo disegna il queer come un mezzo di contrasto in una lastra disegna il tumore: per sottrazione, come un minus di immagine, perché là dove c’è lo schifo vuol dire che il queer non è ancora dominante. Diciamo allora più propriamente non che lo schifo è la sensazione più queer fra tutte, ma che è quella che rivela il queer o la sua mancanza meglio di ogni altra, perché è il suo antipodo emotivo più violento.
Ora, vorrei porre questa domanda: come giudicare qualcuno per il quale lo schifo letteralmente non esiste, ma al massimo (proprio facendoci caso) prova una vaga sensazione di sgradevolezza? Dovremmo forse concludere, sulla base di quanto sopra, che si tratti di un queer integrale, per il quale il concetto stesso di sporco ha perso la sua natura categoriale? E non sto parlando di una assuefazione acquisita, che avrebbe il sapore di un laido cinismo da abitudine, ma qualcosa di coessenziale, congenito, del tutto naturale; un individuo che fin da bambino ha osservato con stupore le reazioni violente degli adulti di fronte a insetti “schifosi”, a contatti immondi, alle perversioni dell’organico; e che tuttora legge con meraviglia degli orrori destati dal corpo umano normale o malato e dalle sue secrezioni in certi individui particolarmente sensibili (ad esempio, in Ceronetti). Per quanto mi riguarda, posso provare una sensazione sgradevole entrando in una stanza in cui sia fortissimo l’odore delle feci, o anche assistendo a un’autopsia; ma lo schifo comunemente inteso è una cosa completamente diversa, mi sembra. La morte, la malattia, la corruzione della carne, qualunque tipo di liquido organico in qualunque condizione, fuori o dentro il corpo, qualunque contatto fra uomini, animali o cose: tutto ciò può suscitarmi al massimo una sensazione sgradevole (nel caso, ad esempio, in cui mi trovassi uno scarafaggio nei pantaloni) oppure, semmai, di pericolo (qualora nei pantaloni mi ritrovassi un cobra o una scolopendra). Non di schifo, però.
Però, a pensarci bene, sensazioni di schifo ne ho anch’io (altrimenti come farei a capire quando la gente li ha, o anche a escludere di averli io stesso in quelle condizioni?). Tuttavia, la condizione di sporcizia non è sufficiente; ma è necessario che ad essa si sovrapponga una prevaricazione violenta, l’esercizio di un potere stupido e/o disgustoso, che obbliga altri a subire la sporcizia e/o la sofferenza o la morte. L’idea stessa della pena di morte suscita in me uno schifo insormontabile, una ripugnanza immediata, istintiva e invincibile. Quando qualche anno fa tutte le televisioni del mondo replicarono il filmato dell’impiccagione di Saddam Hussein, io non sono riuscito a superare i primi fotogrammi, e ho spento d’impulso il televisore, assalito dalla voglia di vomitare, e quei pochi fotogrammi li ho sognati di notte in notte. Capisco fino in fondo a ogni fibra l’affermazione di Thomas Mann, il quale sosteneva che avrebbe considerato l’assistere a un’esecuzione capitale una macchia incancellabile sulla propria onorabilità. Tutto ciò evoca in me una sensazione di sporco, di contaminazione in chi osserva, che prescinde del tutto dalla partecipazione stessa a un gesto così ripugnante: vedere, è già sporcarsi in maniera irreparabile. (Sia detto per inciso, anche se è piuttosto ovvio: lo schifo è proporzionalmente maggiore se la violenza colpisce un soggetto debole.)
E così, per fare un altro esempio, non provo nessuno schifo nell’osservare un malato di mente che mangia le proprie feci: è uno spettacolo sgradevole, ma non propriamente schifoso. Invece, ho provato profonda ripugnanza e schifo vero e proprio nel vedere una scena analoga del Salò pasoliniano, dove la coprofagia era una forma di tortura e prevaricazione dell’uomo sull’uomo. (Si può estendere questo ragionamento alla prevaricazione dell’uomo sull’animale: la sporcizia del mattatoio è, propriamente, schifosa, anche per chi, come me, inconsequenzialmente non è vegetariano. Per esempio, ricordo una terribile scena di Un anno con tredici lune di Fassbinder.)
Quindi, data questa descrizione, come definire un individuo con tali reazioni? Un queer integrale? Un queer etico? Un benpensante inconsapevole? Un filisteo indurito dall’abitudine? Oppure, forse, uno che per definire la propria vuotezza si aggrappa almeno a questo, “io non prevarico“?

Nel paradiso terrestre

La Genesi non dice: «Dio gli insegnò i nomi degli animali», ma: «li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (Gen., 2.19). Fin dall’inizio dunque l’attività di nominazione è propria dell’uomo, e rientra fra le azioni concesse alla sua libertà. (Quasi che rivestire il mondo con le parole fosse un’attività puramente speculativa, e dunque ininfluente, a differenza dello staccare un frutto: ma questo rivestire è analogo a quello che i progenitori faranno sul proprio corpo dopo il peccato, in entrambi i casi il procacciare un vestito, di stoffa o di parole, nasce da una percezione di nudità. La nominazione non si distingue logicamente da una coscienza del bene e del male – almeno per noi uomini. Ma forse questa è già una riflessione postedenica).

Una possibile storia alternativa della scienza

Goethe scrive nella Farbenlehre che la storia della scienza sarebbe stata diversa se, anziché il latino – lingua pesante, definitiva e assertiva, in cui è centrale il sostantivo – si fosse affermato il greco, che parla per verbi, ed è «più ingenuo, e assai più indicato per un’esposizione naturale, allegra, intelligente, bella di felici idee sulla natura» (Das Griechische ist durchaus naiver, zu einem natürlichen, heitern, geistreichen, ästhetischen Vortrag glücklicher Naturansichten viel geschickter).

Su una speciale forma di cinismo

La convinzione riassunta dal detto «bene o male, purché se ne parli» è una forma di cinismo particolarmente ripugnante, perché formalizza, sul piano linguistico, l’accettazione – e, al di là di ciò, la manipolazione – dell’inautentico. Questo non è un valore trasgressivo, ma la nichilistica abolizione di ogni valore. In quanto tale, nessuno lo mette compiutamente in pratica, se non chi tenta il suicidio collettivo, la fine della storia. (E questo è un obiettivo che si può anche perseguire, ma non in quanto valore).
Se l’inautentico, attraverso il mezzo di comunicazione più potente, viene veicolato come un valore, nessuna parola è più possibile, nessuna comunicazione, nessuna felicità.

[Per una volta, sento la necessità di scusarmi per l’immagine un po’ forte che accompagna questo post.]

Nascere a La Spezia

«Nostalgia della città dove sei nato» descrive non un sentimento, ma una classe di sentimenti. Molto diverso è dire semplicemente «La Spezia». Il dialetto, i gesti, alcuni luoghi specifici; e anche ciascuna di queste cose è una classe, ma la loro intersezione alla fine definisce un oggetto solo, come nell’assioma di continuità di cui si parla in matematica. (Quell’uno, però, alla fine rischia di essere linguaggio privato; così in pochi, o forse nessuno, capiranno l’esperienza di sognare ogni notte qualche angolo di una città dove non si vive stabilmente da quasi trent’anni; un’esperienza onirica per me così frequente che quando, all’inverso, in quella città cammino davvero nella vita reale, mi sembra di camminare in un sogno.)

Funzione della menzogna

Se qualcuno dice una bugia troppo grande per essere creduta, non bisogna commettere l’errore di stupirsi quando si constata che tutti, contro ogni evidenza, sembrano crederci. In realtà non era il contenuto della bugia quello che il bugiardo voleva comunicare, ma un messaggio che passa per così dire sopra la testa del contenuto, e che vuole dire: ecco, io mento e tutti lo sanno, ma chi appartiene al mio gruppo sa che la mia menzogna ha uno scopo preciso; questo mio parlare ingannando dimostra che io non mi attengo a una dimensione superficiale e comunicativa, ma che considero il linguaggio come un mero strumento di potere, che prescinde dalla funzione di comunicare una realtà; e quelli che fanno parte del mio gruppo lo sanno. Allora credere, o fare finta di credere, definisce il mio gruppo, e consente di partecipare, o sperare di partecipare in futuro, al mio potere. Il mezzo è il messaggio: nel senso che il mezzo della menzogna strumentalizza il linguaggio per farne un segnale di appartenenza. – Per questo non serve a nulla sbugiardare il bugiardo, se questi ha scelto di pervertire il linguaggio fino a questo punto: servirebbe di più, semmai, riempire di connotazioni negative il gruppo cui egli appartiene, affinché l’appartenervi divenga il meno desiderabile possibile. Non si tratta di esibire la realtà confrontandola con la bugia (o non solo questo), ma soprattutto di mostrare che la comunità di coloro che vogliono credere alla bugia è in verità una comunità di perdenti, in assoluto la più lontana da quel potere che essi quasi istintivamente sostengono.
(Come si vede, la bugia politica è una questione per intellettuali, non per politici.)

Scrivere per gli altri

Nei suoi scritti giovanili, Nietzsche cita spesso il motto di Valentin Rose contro i filologi classici: Sibi quisque scribit. Scrivere per se stessi è sempre più facile dello scrivere per essere letti da altri, sia pure (come quando scriviamo una lettera) da una sola altra persona: sapendo che saremo letti da altri non possiamo più permetterci di essere oscuri, di stendere una frase concisa dando per scontati tutti gli impliciti e i presupposti (noti a noi e a nessun altro). Scrivere per altri, anche per degli altri immaginari, è un’efficace terapia per le scritture tortuose e scioccamente difficili; chi invece si attiene al diario individuale, cade spesso nel linguaggio privato e dunque, come si sa, nel puro non senso.

Sulla morte di Banquo (Macbeth, III, 3)

Banquo: It will be rain tonight.
First Murderer: Let it come down. (Kills Banquo.)

«Il motivo per cui il tempo è un oggetto così universale e così continuo di discussione è che il tempo atmosferico è una sineddoche del mondo a cui la sua variabilità conferisce una salienza percettiva senza paralleli tra gli altri fattori costanti e ineludibili della nostra condizione di viventi (se preferisci, Mauro, possiamo chiamarla creaturalità). L’aria che respiriamo c’è sempre, la gravità che ci tiene ancorati al pianeta anche, la biosfera che ci sostenta pure, ma la percezione che ne abbiamo è tanto costante da non essere più avvertibile, mentre il risultato della loro interazione, vale a dire il tempo atmosferico, è al tempo stesso onnipresente e continuamente mutevole. Questo ne fa un oggetto di percezione talmente intersoggettiva da essere universalmente condivisa e al tempo stesso gli permette di non perdere lo statuto di oggetto di percezione. Per questo il tempo è l’oggetto minimale e massimamente aproblematico della comunione fatica, vale a dire un fatema col quale non si comunica la propria appartenenza a un particolare gruppo sociale ma semplicemente alla compagine dei viventi, gruppo caratterizzato semplicemente dal fatto di avere un interesse comune nel mondo in quanto oggetto di percezione: se un essere umano vuole comunicare a un altro essere umano (o anche soltanto a se stesso: nella scena Banquo – anche se è accompagnato da Fleance – mi sembra non avere un interlocutore) niente altro che "esisto, come prova il fatto che sono in grado di percepire il mondo", gli parla del tempo.
La risposta del First Murderer fa compiere alla battuta di Banquo il salto vertiginoso dal fatico al metafisico. Nel contesto in cui viene pronunciata la frase apparentemente banalissima "Let it come down" vuol dire in realtà qualcosa di molto profondo e complesso: vuol dire "la pioggia che cadrà tra pochi istanti non ti riguarderà più perché quando le prime gocce toccheranno il tuo corpo tu non sarai già più lì a percepirle. Il mondo con il quale stai cercando di affermare di essere in rapporto non è ormai più affar tuo."
(Tra l’altro, se il sonno è fratello della morte è perché entrambi pongono fine all’esperienza del
mondo.)» (Carmen)