Rileggere se stessi

Sfogliando vecchie pagine scritte in passato, si resta colpiti dalla trasfigurazione emotiva che la scrittura subisce ad opera del tempo che passa, una curiosa evoluzione in due sensi che ci fa apparire il nostro io passato contemporaneamente come più sciocco, ma anche come riverberato dalla luce gradevole della gioventù. Come per il libro antico il valore consiste, più che nel testo in sé, nella sua collocazione in una data epoca, così per la scrittura: non ciò che abbiamo scritto conta, ma il fatto di averlo scritto in quel momento. In questa specie di gusto antiquario per la propria scrittura il piacere deriva dall’illusione di unità dell’io nel corso del tempo.

10 pensieri su “

  1. Condivido pienamente, ed a volte il piacere di ritrovarsi (o illudersi che eravamo noi ad aver scritto quelle cose) ci fa essere indulgenti anche con le più efferate sciocchezze uscite dalle nostre vecchie penne (ahi, le nostre vecchie penne di tanti anni fa, e quei quaderni solcati da righi fitti…).

  2. @ bleu e aitan: già, ma eravamo proprio noi? Quanto tempo deve passare perché si possa dire: era un’altra persona? Trent’anni? Un anno? Un secondo? O forse la domanda è senza senso, perché non esiste nessun “io”, e – come suggerisce Lichtenberg – bisognerebbe usare il verbo “pensare” in forma impersonale come “piovere”: “es denkt”, “pensa”, nello stesso modo in cui si dice “es regnet”, “piove”. Allora non c’è un cambiamento di un individuo, ma una successione di puri e semplici fatti irrelati, senza un vero perché.

  3. Chi ha sperimentato l’impressione della propria persona, fasciata in un’ora già lontana di contentezza di sé, che lo guarda da antiche immagini come se un legamento si fosse disseccato o sciolto, capirà l’animo con cui egli si domandò di che cosa fosse fatto quel legamento, poiché negli altri non si distruggeva… gli venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: “Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro”. Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: “allorché”, “prima che” e “dopo che”!… Nella relazione fondamentale con se stessi quasi tutti gli uomini sono dei narratori. Non amano la lirica, o solo di quando in quando, e se anche nel filo della vita si annoda qualche “perché” o “affinché”, essi esecrano ogni riflessione che vada più in là: a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un “corso” si sentono in qualche modo protetti dal caos. E Ulrich si accorse di aver smarrito quell’epica primitiva a cui la vita privata ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già diventato non narrativo e non segua più un “filo” ma si allarghi in una superficie sterminata.

    Musil, L’uomo senza qualità, vol. I

  4. a volte il piacere che “deriva dall’illusione di unità dell’io nel corso del tempo” può anche trasformarsi in una sorta di placido, benché disperato, sgomento di fronte alla vista del tutto, che “si allarga in una superficie sterminata”
    oliver

  5. “Cogito ergo sum.”
    Dal nostro pensiero ricaviamo abitualmente la percezione del nostro io.
    Ma quando cessiamo di pensare, quando restiamo quieti e silenziosi, chi è che, vigile e attento, osserva?

  6. Trovo che rileggendo cose scritte in passato non scopriamo tanto l’unità del nostro Io, quanto il nostro essere in continuo movimento…quindi l’esatto opposto..non la nostra unità, ma la nostra molteplicità…il Tempo non circostrive le nostre emozioni, ma le carezza duttilmente…le rende malleabili…non siamo mai quello che siamo stati anche se a volte ci spingiamo verso episodi di regresso…siamo come il panta rei di Eraclito…tutto in noi scorre….

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